Il Brachetto, vino rosso dolce piemontese al cento per cento, non conosce ancora una rinascita commerciale dopo la crisi che ne ha ridotto drasticamente rese per ettaro (30 quintali) e reddito agricolo (attorno ai 6 mila euro, ma c’è chi dice meno di 5 mila). Per questo il Consorzio di Tutela, condotto da Paolo Ricagno, imprenditore vitivinicolo e presidente di Cantina sociale, ha organizzato, venerdì 3 luglio, ad Acqui Terme, un convegno condotto dal giornalista Filippo Larganà, cui sono intervenuti: Gianni Marzagalli, presidente del Consorzio dell’Asti e manager del Gruppo Campari; Flavio Giaccardi direttore vendite di Capetta-Duchessa Lia; Filippo Mobrici, presidente del Consorzio della Barbera e manager della Bersano; Luigi Bersano di Cuvage; Alessandro Picchi, presidente della F.lli Gancia; Alberto Lazzarino della Banfi. Tra gli ospiti anche un giornalista russo, Dmitry Fedotov e l’assessore all’Agricoltura della Regione Piemonte, Giorgio Ferrero.
Oltre a qualche dato positivo dopo il riposizionamento del prodotto su fasce di prezzo più appetibili dalla clientela, dai protagonisti del comparto è venuta un’apertura fortissima di credito nei confronti del Brachetto che oggi è venduto in meno di 5 milioni di bottiglie.
«Soglia lontana dagli 11 milioni di potenzialità del vigneto» ha detto Paolo Ricagno, presidente del Consorzio del Brachetto, al quale va riconosciuto di essersi preso più di una responsabilità sulla crisi brachettiana. E a chi gli chiedeva come conciliare il rilancio di un prodotto con la forte penalizzazione su rese e reddito agricolo Ricagno ha risposto illustrando la storia passata del Brachetto: «Ricordiamoci che il reddito rappresentato dal Brachetto, in media attorno ai 15 mila euro ad ettaro in vent’anni, ha permesso alle aziende di crescere. In questo, essenziale è stato il legame con l’industria: quello che hanno fatto personaggi come Arturo Bersano ed Ezio Rivella non va dimenticato».
Marzagalli ha annunciato che: «il mercato italiano nel 2015 è in crescita, ma occorre risolvere il problema delle eccedenze e delle rese produttive che sono inammissibili». Per Giaccardi il riposizionamento del prodotto è stata un’opportunità di crescita commerciale, ma: «occorre continuare a credere nel Brachetto e investire nella qualità del prodotto e nella comunicazione».
Mobrici ha confermato e dichiarato: «Nel Brachetto abbiamo stracreduto. Se si rompe il giocattolo ci rimettiamo tutti. Per questo siamo qui a metterci la faccia anche se la resa di 30 quintali/ettaro è offensiva per chi lavora in vigna».
Luigi Bersano di Cuvage ha parlato dei nuovi mercati avvertendo, però, che: «bisogna mettere ordine sul territorio e arrivare a una unica denominazione». Picchi ha proposto: «Sulle bottiglie occorre indicare l’anno di produzione» e confermato: «Noi della Gancia crediamo e continueremo a credere nel Brachetto». Alberto Lazzarino di Banfi, il cui Brachetto sul mercato Usa, come prezzi e gradimento, è secondo solo a un paio di Champagne, ha ribadito: «Le potenzialità del mercato americano sono ancora inesplorate. Ma occorre crederci e fare promozione, molta promozione».
Belle parole a cui non possono non seguire i fatti, specialmente dopo anni di promesse e delusioni. Il fatto, però, che proprio i vignaioli non siano ancora i primi ambasciatori di questo vino (accade purtroppo anche per altre tipologie piemontesi) indica che ci deve essere non solo un cambio di passo a livello industriale e commerciale, ma anche una nuova mentalità che attribuisca ai viticoltori il ruolo di primi testimonial del vino prodotto.
In questo senso le conclusioni dell’assessore regionale Giorgio Ferrero: «È cambiato il mondo e dobbiamo avere il coraggio di cambiare le doc – ha avvertito l’esponente politico – . Parliamo di territorio – ha continuato -, ma quanti bar nella zona di produzione propongono il Brachetto?». Un discorso sempre ribadito, a più livelli, che stenta ad essere attuato proprio per quel cambio di mentalità che ancora non c’è». (da SdP)